La storia dimenticata di vini e dei sapori del Po

Schermata-2016-12-28-alle-10.08 Fonte:   https://www.vinix.com

La retorica della nebbia, per chi come me è nato e cresciuto in riva al Po, è una costante. Il suo fascino, la sua austerità, la sua magia, la sua capacità di nascondere e sorprendere: queste sono le cose che ci piace raccontare, con cui amiamo suggestionare chi nella nebbia vede un muro grigio. La retorica della nebbia mi è rimasta, pure ora che in quella valle non vivo più, e che di nebbia ne vedo poca.

Proprio lì, in mezzo alla fabbrica della nebbia, quando da Zibello giri a destra costeggiando il Po verso Polesine Parmense, si erge una villa cinquecentesca, ora casa di Giuseppe Tomasetti e della sua Family Winery.

La storia di Giuseppe sarebbe quella di tanti emigrati, che da bambini hanno seguito la famiglia oltreoceano, per fare successo nella terra promessa americana. La storia di Giuseppe sarebbe questa se non per il fatto che, dopo una brillante carriera da avvocato tra Stati Uniti e Europa, lui ha scelto di tornare in quella bassa parmense, e di fare vino. E se esiste una persona abbia deciso di dedicare la propria vita allo studio e alla riscoperta della storia e della tradizione culinaria di quell’angolo di valle del Po, questo è Giuseppe Tomasetti.

Ma come, direte, la bassa parmense? La tradizione culinaria la conosciamo tutti, quella Sua Maestà Culatello, che stagiona silenzioso nelle cantine sperdute tra i banchi di nebbia, lo strolghino, e poi il Lambrusco, la Fortana…
No, no, fermatevi un attimo. La storia è diversa e, se un giorno decideste di far visita a Giuseppe, sarà suo piacere raccontarvela.

Il vino predominante in questa zona, e in generale tra il Piemonte orientale e Parma, era la Barbera. Più a ovest, e più a nord, imperava il Nebbiolo, mentre più a Est, scendendo verso Reggio e Modena, si entrava nella terra del Lambrusco. Secondo ricerche storiche piuttosto recenti, la Barbera era in assoluto il vino più amato in questa zona ai tempi dei Romani, e pare che il Gutturnio (ovvero il blend tipicamente piacentino di Barbera e Croatina) fosse un’invenzione della terza suocera di Giulio Cesare. Il bianco predominante era certamente il Tocai che, tradizionalmente, si pigiava al mattino e si torchiava alla sera.

In pianura non si coltivava vite, ma più che altro si vinificava perché, fin dai tempi dei Romani era dedicata, vista la sua fertilità, al nutrimento della popolazione, quindi alla coltivazione del frumento. In collina stavano gli alberi da frutto e più in alto, dove il terreno è meno fertile, si coltivava la vite. Soltanto le famiglie nobili piantavano pochi filari nei terreni attorno alle ville, perché questa pianura alluvionale donava al vino qualità straordinarie. In ogni caso, fino alla Seconda Guerra Mondiale la maggior parte delle uve arrivava dai colli piacentini, e si trattava appunto di Barbera, e cantine come la Parenti & Rossi (di Pieveottoville, nei pressi di Busseto, che produceva quasi mezzo milione di bottiglie all’anno fino alla chiusura nel 1967) le vinificavano.

Diversa è la storia dell’altra sponda del Po, soprattutto più a Est verso Mantova, in cui il Lambrusco si coltiva da sempre.

Dicevamo la Fortana, quel vino dolciastro e rosa divenuto simbolo della bassa parmense. La Fortana, geneticamente, non è che Canina Nera, strettissima parente del Lambrusco Maestri e del Malbo Gentile, e a riguardo Giuseppe vi suggerirà di leggere quella Bibbia dei vitigni che è Wine Grapes, tomo (come direbbero i miei insegnanti del Liceo) curato da Jancis Robinson. La Canina Nera è un’uva da tavola, e il nome Fortana deriva da “pieno di frutto”. E nulla ha a che vedere con la Fortana della foce del Po.

Anche per quanto riguarda la gastronomia, versandovi un bicchiere della sua Giaranzana (sulla quale non vi dico niente, soltanto andate e assaggiate), Giuseppe potrà dirvi che il Culatello è un’invenzione piuttosto recente, che la pasta all’uovo non fa parte della storia popolare (fu inventata dal cuoco della corte Estense nel XVII Secolo, e su questo non si discute), che gli anolini arrivano appena più tardi e che i tortelli furono un’elaborazione dei tempi di Maria Luigia, e che questa era terra di risaie.

Una mappa del 1898 mostra chiaramente come le sponde del Taro, dalla collina al Po, fossero risaie, così come alcune aree più a est, tra Colorno e Sorbolo. Diversi anziani potranno confermarvi che, fino agli anni ‘60, quello che ora è il tratto Milano – Reggio Emilia dell’Autostrada del Sole fosse quasi una unica enorme risaia. Riso e verze, riso e uova e bomba di riso (un piatto delizioso, al forno, con carne di piccione) erano la base dell’alimentazione di queste pianure. E Barbera, tanta, tantissima Barbera.

Il sostentamento economico della zona, invece, e qui non tradiamo il folklore, era il Parmigiano Reggiano, il cui valore era quasi inestimabile. Pare che si produca sin dai tempi degli Etruschi, e pochi prodotti agricoli hanno la sua capacità di moltiplicare in maniera esponenziale il valore dalla materia prima al prodotto lavorato.

Cronache del XVI Secolo raccontano che il Re d’Inghilterra, per muovere un’armata a sostegno del Papa, fu pagato con cinque forme di Parmigiano Reggiano, e numerosi altri episodi simili si trovano durante tutto il Medioevo e l’Età Moderna.

Quindi andateci, da Giuseppe. Fate un giro nei pioppi delle golene, fatevi avvolgere dalla nebbia, andante a spiare in silenzio i pescatori, intanto che immaginate le prime immagini di ogni film di Don Camillo (che è ambientato pochi chilometri più a Est, ma nello stesso paesaggio). E assaggiate le poche bottiglie che produce Giuseppe, tra il suo accento americano e la sua profonda conoscenza e continua ricerca storica.
Come ogni ricercatore, Giuseppe Tomasetti non si erge a difensore ortodosso della tradizione, ma ne interpreta i valori e gli insegnamenti per creare ciò che ama.

Il Lambursco lo coltiva, perché anche qui nei decenni è diventato di casa, e lui ne fa uno rifermentato in bottiglia, con il procedimento che permise a un Lambrusco reggiano di vincere la medaglia d’Argento all’Esposizione Universale di Parigi (sì, la stessa della Tour Eiffel). E sentirete il suo metodo classico, sempre Lambrusco, ma fatto con il vecchio metodo del Tocai, ormai dimenticato da queste parti.
E la sua Giaranzana, della quale ho promesso di non parlare, ma non posso esimermi. Merlot. Merlot? Sì, perché il Merlot ama tantissimo le zone alluvionali, e assaggiandolo capirete come si può ottenere l’eleganza di un Bordeaux in riva al Po.

Tomasetti Family Winery

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